Lo sport come terapia
Emiliano, uno dei nostri atleti, ci parla del suo rapporto con lo sport e di come possa essere visto come una terapia.
La società in cui viviamo basa la maggior parte delle sue valutazioni su “pregiudizi” e vecchi “stereotipi”, che a loro volta influenzano i comportamenti delle persone verso chi è diverso da loro.
Tutto, o quasi tutto, è portato all’estremo quando si parla di disabilità. Per esempio in Italia, in alcuni casi ancora oggi, la disabilità non è altro che un problema di cui lo Stato e le famiglie devono farsi carico. Il disabile è spesso percepito come lo “sfigatello” a prescindere che esso abbia un problema motorio o mentale. È come colui che, a causa del suo handicap, non può o non potrà fare quello che gli altri fanno nella loro quotidianità. Senza tanti giri di parole, mi riferisco a cose semplici, come giocare a calcio, correre, oppure avere un/a ragazzo/a.
Ovviamente non tutti la pensano così. Però si dà spazio ad un retro-pensiero che porta la gente ad evidenziare sempre ciò che il disabile non riesce a fare piuttosto che mettere in risalto l’opposto. Non solo, anche i diretti interessati in molti casi si auto-convincono di non poter o non saper fare nulla.
Meglio sarebbe concepire la disabilità come una “condizione di fatto”, ovvero solo come un problema fisico che però non impedisce di fare le stesse cose che fanno gli altri in maniera diversa. Nessuno di coloro che indossano gli occhiali è visto come disabile, ma se ci pensi bene, in realtà, lo è. Quindi si potrebbe adottare lo stesso metro di giudizio per ogni tipo di handicap, fisico o mentale che sia. Concepire la disabilità solo come una condizione di fatto, potrebbe essere un buon punto di partenza per l’inclusione nella società.
Lo sport, inserito in un contesto di disabilità, può essere visto come una terapia? È un mezzo per aiutare le persone a vedere il mondo e il quotidiano in maniera più propositiva?
Indubbiamente sì. Lo sport è una terapia. È sempre stato un mezzo di inclusione molto efficace e potente. Il motivo? A mio parere il motivo è da trovare nel fatto che lo sport arriva direttamente al cuore delle persone. Nel caso della disabilità le attività sportive fungono come mezzo di inclusione molto più di quanto si possa pensare.
Pensiamo agli sport di squadra. Noi Leoni Sicani pratichiamo hockey su carrozzina e a breve cominceremo a giocare a football in carrozzina. Ecco, queste attività, non sono soltanto ludiche per una persona disabile, ma possono essere considerate delle vere e proprie terapie. A mio modo di vedere le cose, lo sport è non solo utile alla socializzazione e all’inclusione, ma lo ritengo utile molto più di tante altre cosiddette “terapie occupazionali” rivolte alle persone con disabilità.
Perché lo stare insieme, il fare gruppo, condividere esperienze di vita e sul campo da gioco con i propri compagni, aiuta non solo a migliorare se stessi come atleti. Inoltre, e soprattutto, permette a chiunque di interagire con gli altri. Questo, secondo me, è il miglior metodo di crescita di ogni essere umano. Anche il pubblico che assiste alle gare ne trae beneficio. Infatti, durante le partite la gente non vede più il “povero” disabile in carrozzina, lo “sfigatello” a cui prima abbiamo accennato. Quel che vede è un atleta. Per tale ragione si entusiasma per un suo gesto tecnico o per un suo gol. Lo sport esclude il pietismo della disabilità. Nello sport esiste solo un individuo che vuole essere bravo in ciò che sa fare e tutto ciò, parafrasando la campionessa olimpica Bebè Vio, “è una figata pazzesca!”.